Storia dell’architettura contemporanea: il secondo dopoguerra
L’iniziativa alla base della ricerca della mia seconda tesi di laurea in Scienze dell’Architettura è nata dalla volontà di analizzare dal punto di vista storico e architettonico un percorso, già intrapreso nella precedente tesi di Laurea, sulle vicende romane, questa volta all’indomani della Liberazione e per i dieci anni di ricostruzione che seguiranno. Nonostante il dramma della Guerra sia appena formalmente terminato, si tratta di un periodo di fermento per la classe intellettuale, alla ricerca di una nuova cultura architettonica da formare, ricca di nuovi contenuti, che si affollano nelle coscienze colme di fiducia, e in cui il dibattito architettonico è straordinariamente vivo[1]. Partecipano a questo clima le riviste di architettura, qui «considerate nella loro doppia veste di documento da cui trarre testimonianze vive del dibattito architettonico contemporaneo e di strumento per la diffusione della cultura architettonica e professionale, ovviamente filtrata attraverso il clima politico dell’epoca»[2]. Le riviste prese in esame sono:
- Architettura: rivista del Sindacato nazionale fascista architetti
- L’architettura italiana: periodico mensile di costruzione e di architettura pratica
- Capitolium. Rassegna mensile d’attività del Governatorato di Roma
- Costruzioni-Casabella. Rivista mensile di architettura e di tecnica
- Casabella-Continuità. Rivista internazionale di architettura
- Domus: architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna
- Edilizia popolare
- Rassegna critica di architettura
- Spazio. Rassegna delle arti e dell’architettura
- L’urbe. Rivista romana
- Urbanistica
- Vitrum. Lastre di vetro e cristallo
Partendo da questi presupposti, riguardo alle opere, si è deciso di prendere in considerazione tanto quelle di carattere pubblico quanto quelle di carattere privato, sia quelle realizzate che quelle solamente progettate, per fornire una panoramica quanto più completa delle elaborazioni nell’ambiente romano nel lasso di tempo volutamente compreso tra il 1943 e il 1954. La scelta di impostare il lavoro di ricerca a partire dal 1943 deriva da considerazioni storico-architettoniche pertinenti alla situazione italiana: infatti, nonostante la guerra termini ufficialmente nel 1945, le “ricostruzioni” architettoniche iniziano subito dopo i bombardamenti del 1943 e sono questi ultimi, dunque, che rappresentano la vera e propria cesura tra il periodo precedente e quello successivo. Del resto si è preso, poi, in considerazione l’intervallo 1945-1954 perché esso rappresenta il primo decennio di ricostruzione.
[1] Lelo A., Interni romani: l’evoluzione del gusto nelle riviste di architettura 1920-1939, in Prove di dialogo. Ricerche tra arte e architettura, a cura di Daniela Fonti, Rossella Caruso, Roma, 2012.
[2] Cfr. Manieri Elia M., Il dibattito architettonico degli ultimi vent’anni. I – Il primo decennio dalla Liberazione, in “Rassegna dell’Istituto di Architettura e Urbanistica”, 1, 1965, pp. 77-78.
La produzione architettonica
Nonostante il potenziale mutamento del clima culturale che si respirava in Italia, al termine del Secondo Conflitto Mondiale, «nelle prime opere progettate o costruite dopo la guerra dagli architetti romani ritroviamo […] significativi dati di una continuità sostanziale, non solo tecnica, ma culturale e specificatamente architettonica, con temi di ricerca e di dibattito già presenti nell’anteguerra»[3]. Il punto di inizio della Ricostruzione vera e propria può essere fissato nel concorso bandito dal Comune nel 1944 per la sistemazione delle Cave Ardeatine, luogo di uno sterminio di 335 civili da parte delle truppe naziste. Il progetto vincitore degli architetti N. Aprile, C. Calcaprina, A. Cardelli, M. Fiorentino, G. Perugini (scultori M. Basaldella e F. Coccia) rappresenta un importante risultato nella produzione architettonica italiana e internazionale: ne scaturisce «un’opera austera e di estrema tensione emotiva», in cui «un unico percorso collega il luogo del martirio con quello della sepoltura, ricoperta da un’unica colossale pietra tombale in cemento armato»[4]. Purtroppo tale monumento, che sembra essere la chiave di “svolta” nella produzione architettonica romana, non figura in nessuna delle riviste prese in esame, tranne che su “Metron”, che si pone sempre come veicolo trainante nello sviluppo della civiltà postbellica e del dibattito sia architettonico che culturale. Un trattamento simile è riservato anche ad un altro imponente concorso che vede protagonista la Capitale nel 1947, l’edificio di testa della Stazione Termini, che con rammarico si nota essere pubblicato solo dagli editoriali romani, in particolare su “Capitolium” e superficialmente su “Spazio”. I due gruppi di progettisti, composti l’uno da L. Calini ed E. Montuori e l’altro da M. Castellazzi, V. Fadigati, A. Pintonello e A. Vitellozzi, vincitori ex aequo del concorso, realizzano un impianto articolato in quattro parti, accostate per giustapposizione: l’atrio d’ingresso, caratterizzato da pareti vetrate e da una particolare pensilina con nervature in calcestruzzo armato alternate a fessure lineari in vetrocemento; il corpo degli uffici, definito da un parallelepipedo lungo 232 m con sottili finestre a nastro; la galleria di testa che connette le due arterie stradali circostanti; e le sale del ristorante al primo piano, di spiccato gusto organico[5].
[3] Accasto G., Fraticelli V., Nicolini R., L’architettura di Roma capitale 1870 – 1970, Firenze, 1971, p. 515.
[4] Muratore G., Roma: guida all’architettura, Roma, 2007, p. 256.
[5] Cfr. Muratore G., op. cit., p. 217.
Il piano INA-Casa
L’approvazione nel 1949 della cosiddetta “legge Fanfani” e la conseguente creazione del Piano INA-Casa – cui è affidato il compito di costruire i nuovi quartieri destinati ai lavoratori dipendenti, incentivando così l’assorbimento di manodopera nel settore edile[6] – pone le basi per affrontare in maniera concreta e sistematica il “problema della casa” nel dopoguerra. L’ente suggerisce ai progettisti di badare a «salute morale, benessere psicologico per gli abitanti da ottenere con composizioni urbanistiche varie, mosse, articolate, tali da creare ambienti accoglienti e riposanti, con vedute in ogni parte diverse e dotate di bella vegetazione, dove ciascun edificio abbia la sua distinta fisionomia ed ogni uomo ritrovi senza fatica la sua casa, col sentire riflessa in essa la propria personalità»[7]: gli architetti fanno propri questi principi e si avvicinano al cosiddetto “neorealismo”, con la volontà di aderire alla realtà quotidiana, di interessarsi alle dinamiche del proprio tempo, di insinuarsi negli ambienti popolari, eliminando finalmente il velo della retorica. Questo fenomeno si sviluppa in architettura, quando nel cinema o in letteratura è già pienamente operativo, e questo accade, tra le altre cose, anche per la caratteristica intrinseca del settore cinematografico di porsi come cronaca immediata e tempestiva. Sfortunatamente bisogna ricordare che l’attività dell’Ina-Casa non è mai stata inglobata nei Piani regolatori né in qualsiasi altra forma di coordinamento pianificato e ciò si pone in quella linea, spesso adottata in Italia (analogamente accade per la mancata approvazione della legge Sullo nel 1962-63), che prevede l’adozione di provvedimenti parziali e iniziative eccezionali nell’ottica degli interventi di emergenza, che non fanno altro che scarnificare una struttura già alla base debole.
[6] Cfr. Dal Co F. (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Secondo Novecento, Milano, 1997, p. 16.
Il restauro
Nella fase iniziale del conflitto, Roma era stata graziata dagli attacchi, sia in quanto essa rappresentava il cuore del cattolicesimo, sia per la sua scarsa importanza come centro industriale: tuttavia, nonostante la dichiarazione di “città aperta”, data dal particolare interesse storico e culturale della città ed in virtù del numero consistente di civili, gli attacchi continuarono anche l’anno successivo – anche se in maniera meno violenta e più mirata – colpendo principalmente le zone di Trastevere, ma anche la Città del Vaticano. L’estensione delle rovine, dunque, unita alla necessità di risanare un immenso patrimonio artistico, portò gli addetti al settore ad operare non propriamente in conformità con i documenti legislativi utilizzati nell’ante guerra – quali la Carta italiana del restauro del 1932 e le Istruzioni per il Restauro dei Monumenti del 1938 – ma ci si pose piuttosto nella ben nota condizione di “intervento di emergenza”: l’atteggiamento è inizialmente quello del “dov’era e com’era”, ristabilendo la forma architettonica che il monumento aveva in precedenza, o quello che cerca di ripristinare “la veste compiuta”, attraverso una ricerca critica che tende ad eliminare le stratificazioni, soprattutto quelle barocche[7]. Tale situazione precaria e confusa sulle direttive da seguire in materia, può essere dovuta al fatto che i due Ministeri, che dovevano occuparsi di questo mastodontico problema del dopoguerra, cioè quello dei Lavori Pubblici e quello della Pubblica Istruzione, «non riescono ad armonizzarsi per il raggiungimento dell’unica meta»[8] e vivono in un conflitto di competenze nel campo del restauro dei monumenti che può essere tollerabile in tempi normali, ma non in tempi di guerra. Lo stato di necessità postbellico, dunque, «diede il via ad un’ampia riconsiderazione dei principi del restauro, basata in primo luogo sopra una serrata critica dei fondamenti del restauro filologico e scientifico»[9], a causa dei loro principi di estrazione positivista e del loro sostanziale disinteresse per il lato estetico del problema. La teoria del restauro critico parte dal presupposto che «ogni intervento costituisce un caso a sé» e che «sarà l’opera stessa, attentamente indagata con sensibilità storico-critica e con competenza tecnica, a suggerire al restauratore la via più corretta da intraprendere»: ne consegue che il fine ultimo di tale tipologia di restauro è quello «di ritrovare e liberare l’opera, cioè la sua immagine, anche se ciò comporti rimozione di parti aggiunte, pur se di qualche valore figurativo o documentario»[10].
[7] Cfr. Treccani G. P., Danni di guerra, restauro e centri storici, in “Storia Urbana”, 114-115, 2007, p.5.
[8] De Angelis D’Ossat G., Un problema del dopoguerra: il restauro dei monumenti, in “Metron”, 2, 1945, p.45.
[9] Carbonara G., Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, 1997, p. 285.
[10] Ivi, p. 285-286.
L’urbanistica
Per meglio comprendere le vicende urbanistiche di Roma durante la Ricostruzione, bisogna fare un passo indietro fino al 1931, anno a cui risale il Piano Regolatore Generale della città. Come è facile notare, tale strumento non poteva essere adeguato sia da un punto di vista temporale, in quanto redatto tredici anni prima, sia da un punto di vista concettuale, in quanto esso era nato per «imprimere a Roma l’orma indelebile della nuova città fascista» ed «era evidente l’assurdità di mantenere in vita uno strumento così impostato»[11]. Ma, come è già avvenuto per gli altri ambiti trattati, anche in materia urbanistica la dichiarazione di “emergenza” «viene adoperata per eludere le regole della pianificazione: della corretta e razionale gestione delle trasformazioni territoriali»[12]. La “febbre edilizia” esplode, di conseguenza, negli anni ’50 lasciando spazio a nuovi latifondisti, che a Roma presero il nome di “palazzinari” – a causa della tipologia edilizia prevalente nella Capitale – che «pilotavano l’approvazione dei piani particolareggiati disposti “a macchia di leopardo” sulla loro proprietà attorno alla città: si andarono così formando nell’Agro Romano ì cosiddetti “quartieri dormitorio” della generazione postbellica»[13], tra cui Nuovo Salario, Don Bosco, Appio Latino, Monte Mario, Vigna Clara. Infatti, «in assenza di una politica urbanistica nuova che desse al Comune autorità e mezzi per essere effettivamente l’organo dirigente della ripresa edilizia è chiaro che la efficienza e la prontezza del privato imprenditore avrebbero preso la mano all’incerta e pesante attività dello Stato»[14], e ciò avvenne in due modi: da una parte l’iniziativa privata completò i tessuti edilizi già impostati, sfruttando le maggiori altezze, consentite nel frattempo dalle varianti al regolamento edilizio, dall’altra si occupò di urbanizzare aree periferiche non edificate, non dotate di servizi e spesso collocate all’interno del piano regolatore, di modo che spettasse al Comune costruire le strade e impiantare acqua, luce e gas.
[11] Insolera I., Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Roma, 2001, p. 177.
[12] Salzano E., Fondamenti di urbanistica, Roma-Bari, 2008, p. 110.
[13] Lugli P. M., Urbanistica di Roma, Roma, 1998, p. 160.
[14] Insolera I., op. cit., p. 190.
I saggi critici
Volendo tracciare un quadro il più possibile completo del panorama romano ritratto dalle riviste di architettura all’indomani del Secondo Conflitto Mondiale, accanto alle tematiche già affrontate in questa ricerca, si è ritenuto indispensabile affiancare una sezione dedicata ai saggi critici, intendendo con questo termine quegli articoli che, seppur potenzialmente ascrivibili ai temi sopra citati, sottintendono in realtà un velato, o a volte deciso, punto di vista dell’autore o di un gruppo di personalità rilevanti dell’epoca. Questo dato, infatti, permette una trattazione più completa del tema della Ricostruzione, in quanto evidenzia le correnti di pensiero, le linee guida, i filoni storico-architettonici e le tendenze di vario genere che si andavano affermando nella Capitale. Sicuramente un aspetto che probabilmente è il vero fil rouge del periodo è l’“emergenza”, intesa come modus operandi, come azione sistematica da adottare nel momento in cui bisogna intervenire in qualsiasi campo. Questo atteggiamento si è palesato particolarmente nel caso dell’Ina-Casa, un progetto che incarnava «il sogno di una bella, di una civile ricostruzione, di una urbanistica e d’una architettura che redimessero coi loro valori civili e sociali l’umanità dai delitti perpetrati contro se stessa»[15]: purtroppo, però, «la mano, la forza, oppure quella che si può chiamare una esuberanza costruttiva, […] è arrivata prima, e noi abbiamo avuta soltanto una ricostruzione naturale (o drammatica) in luogo di una ricostruzione programmatica»[16]. Un altro tema è legato ai numerosi appelli per la conservazione del patrimonio artistico romano e, nel caso particolare, per la salvaguardia della via Appia Antica, che si trova al centro di una coraggiosa campagna promossa da Antonio Cederna e condivisa sulle pagine di “Casabella-Continuità” nel 1954. Tra la porta di S. Sebastiano e la villa dei Quintili settanta nuove palazzine sono già state costruite, senza preservare l’integrità della via che doveva essere protetta da un piano paesistico: queste costruzioni, quindi, non sono state impedite, ma si è cercato di mimetizzarle con accortezze cromatiche che richiamassero l’antico casale romano, creando così un vero e proprio falso storico. Ovviamente il tutto è attribuibile alla mancanza di un piano regolatore, cosa che «ha avuto come naturale conseguenza il trionfo della speculazione privata: proprietari di fondi, mercanti di aree, società immobiliari, ecc. hanno da un pezzo strappato, anche sul fronte dell’Appia Antica, l’iniziativa agli organi statali e comunali»[17]. E proprio questa mancata capacità di valorizzare monumenti, «unico nostro motivo di gloria davanti al mondo»[18], viene condannata anche da Gio Ponti nel 1949 in un articolo che, mettendo a paragone Francia e Italia, sottolinea come i francesi siano sempre in grado di sostenere i loro valori e le loro arti, mentre l’Italia li lasci, sempre e poi sempre, cadere.
[15] Ponti G., Efficienza architettonica del piano Fanfani e i suoi sviluppi sul piano della produzione industriale, in “Domus. La casa del’uomo”, XXII, 248-249, 1950, fuori testo.
[16] Ibidem.
[17] Cederna A., Ancora un appello per la via Appia, in “Casabella-Continuità”, XVIII, 200, 1954, fuori testo.
[18] Cederna A., art. cit., fuori testo.